Intervista a Lamberto Pignotti



La Biennale di Venezia 1964


Pignotti parla della Biennale di Venezia del 1964

persone citate: Rauschenberg, Robert; Warhol, Andy; Lichtenstein, Roy; Baj, Enrico; Nevelson, Louise; Argan, Giulio Carlo; Mondrian, Piet; Serpotta, Giacomo; Buonarroti, Michelangelo; Hegel, Georg Wilhelm Friedrich; Gruppo 63; Eco, Umberto; Merisi, Michelangelo (Caravaggio); Courbet, Gustave

enti e istituzioni:
Biennale di Venezia

trascrizione:
R.P.: Possiamo, se ti va, parlare un attimo della Biennale del '64, e ad esempio del tuo contributo in questa rivista, e poi successivamente di Situazione 68 e quindi del rapporto con la contestazione che è un'altra cosa importante di quegli anni.

L.P.: È sempre un rapporto di opposizione, di presa di distanza da quel momento sociale e artistico. Nel '64 io mi trovo invitato alla Biennale di Venezia, in cui si stava magnificamente perché quando ci invitavano c'erano i migliori alberghi, ristoranti ecc. ecc., mi stavo preparando un discorso vedendo che a quella Biennale non era andato il capo dello Stato, ho pensato evviva, significa che in questo momento la Biennale di Venezia sta veramente rompendo le scatole al sistema, è un fatto. Dall'altro invece mi accorgo che sì, si sono accorti che l'Informale, che il Neorealismo hanno fatto il suo tempo e si stanno accorgendo che vengono fuori e affiorano dei momenti in cui la figurazione prende corpo, nel senso che dall'Informale si passava a un tipo di figurazione che era quello della Pop Art, o anche della Poesia Visiva che era nata da poco. Però cosa succede, che in nome della Pop Art, arte popolare, viene premiato Rauschenberg che non è Pop Art, è ancora una propaggine dell'Informale materico, è un neo-dadaista. Non è ancora Warhol, Lichtenstein, forse Warhol addirittura non c'era, ma Lichtenstein e altri erano stati posti fuori dalla Biennale, come le nostre cose. Poesie e No l'abbiamo fatta anche in quei tempi lì alla Biennale, poi le facevamo insieme a, chessò io, Baj e compagnia bella ma c'erano i padiglioni e via. Oggi no, ovviamente la Biennale è una scusa su uno vuole andare a fare una vacanza a Venezia, all'epoca si poteva scoprire qualcosa di nuovo, prima ancora avevo scoperto la Nevelson, grande artista quasi dimenticata, non nel '64 forse nel '62 o addirittura prima. Quando io andavo alla Biennale, sempre invitato bontà loro, quando Argan faceva i convegni (...) si andava a dire la nostra e si parlava di arte e comunicazione.

R.P.: Che rapporto hai avuto con Argan?

L.P.: Bellissimo e avversativo. Argan era una persona diametralmente opposta a me, ma mi apprezzava, questi sono critici che oggi non troviamo facilmente. Per schematizzare, lui era completamente dalla parte della Op Art, della Gestalt e del geometrismo io e il Gruppo 70 invece eravamo invece Pop Art, figurazione, uscire dall'ermetismo e dal geometrismo che a me ha sempre un po' annoiato, io non ho mai amato molto Mondrian, figurati gli altri. Però Argan mi chiamava a dire la mia, fino a che non è morto si andava a parlare con lui delle cose che stavano succedendo, magari lui tornava da Palermo dove era andato a vedere lo scultore Serpotta, mi pare, perché doveva vedere... insomma fino all'ultimo con Argan, stava studiando ancora Michelangelo eppure si parlava, era anche scritto nero su bianco, di morte dell'arte. Dice "è una fandonia la morte dell'arte", guardate che non è stato Hegel a parlarne per primo, sono stati i romantici tedeschi, avevan preso atto che nella società, che prefigurava una società di massa, industrializzata ecc., il linguaggio dell'arte e della poesia non poteva essere più quello che era stato usato fino a quel momento, una continua palingenesi, una mutazione genetica. Ecco di mutazione genetica di cui si parla proprio con il Grupppo 63, io e Umberto Eco (...) parlavamo proprio di mutazione genetica, quindi fine dell'arte e fine dell'avanguardia (...) fino a quel momento, e poi sempre ricomincia, non è che muore, muore quella che è stata fino a quel momento l'arte e poi ne nasce un'altra. È una continua mutazione genetica, per fortuna, sennò rimarrebbe il Cinquecento, Michelangelo, Caravaggio poi a Courbet e poi si smette. Se non ci si accorge che la mimesi è finita non si comincia a fare l'Impressionismo, l'Espressionismo, Dadaismo, Arte povera e così via.