Intervista a Luisa Gardini



I collage e gli assemblage


Luisa Gardini commenta la sua produzione di collage e assemblage realizzata a partire dalla metà degli anni Sessanta, rintracciandone le origini in esperienze quali il Surrealismo e il Neo Dada. In parallelo chiarisce il valore da la lei riconosciuto al disegno in rapporto al resto della sua produzione, e la relazione esistente fra i collage caratterizzati dalla stratificazione di lettere ritagliate e le opere connotate da una scrittura di tipo desemantizzato.

soggetti:
assemblage; collage; Surrealismo; Pop Art; Neo Dada; disegno; oggetto

trascrizione:
E.G.: In parallelo con i lavori su carta nascono pure gli assemblage, no?!

L.G.: Beh, sì, nella seconda metà degli anni Sessanta. Ci sono sia assemblage su carta… su piano diciamo… sia oggetti assemblati con materiali qualsiasi, con le prime cose che erano sottomano. Evidentemente c'era in me anche una necessità di accumulazione di oggetti. Vedevo un oggetto come un qualcosa che poteva essere utile per fare un assemblaggio. Questo veniva dall'arte americana, ma veniva pure dal Surrealismo. Queste le due fonti: il Neo Dada, quindi il Dadaismo e l'arte americana che già cominciava a diventare Pop Art.

E.G.: E quindi ritorna spesso l'uso di questi materiali quotidiani, che sono lasciati però nella loro essenza materica: molto spesso non vengono ricoperti da pittura e hanno anche un carattere effimero. C'era una progettualità, o non c'era?

L.G.: Assolutamente non c'era progettualità, una cosa che io avevo in mente, ma era più a livello quasi inconscio. Erano cose viste, ricordate, che riaffioravano nel momento di farle. Era proprio nel gesto del lavorare che veniva fuori la forma definitiva. Quindi, lavorando le idee saltavano fuori. Poi il disegno contemporaneamente all'oggetto: io facevo l'oggetto, poi lo disegnavo, e questa era quasi una spirale. Dal disegno venivano fuori altri oggetti e viceversa.

E.G.: Quindi non c'era una consequenzialità disegno-oggetto, ma semmai era una cosa che nutriva l'altra, in un certo senso.

L.G.: Sì, esattamente.

E.G.: Una cosa interessante è appunto che negli anni Sessanta si ha sia un interesse per il segno che evoca una scrittura desemantizzata, sia per lettere ritagliate, tipo stencil, che vengono accumulate, appunto secondo il principio del collage, su superfici pittoriche. Quindi un rapporto con il segno che acquisisce questi due caratteri: da una parte di segno illeggibile, quindi desemantizzato, e dall'altra di lettere, che possono essere lette, ma che fondamentalmente si vedono sottratte…

L.G.: … a una lettura. Sì, sì. Anche se non era assolutamente progettato, c'è un nesso, fra le lettere e la scrittura illeggibile, che era sempre formata da parole reali… questo assolutamente! Diventavano segno puro, ma dovevano avere già una loro forma che io deformavo in velocità. Poteva essere il titolo di una canzone, le frasi di un pezzo musicale, o il titolo di un libro, o qualcosa che mi veniva in mente ripetutamente.
Qui non c'è volontà di dire delle cose che poi non dico. No, no!
Forse erano dei pensieri in libertà che poi venivano stratificati, definiti in vari modi: o incollati, o spesso usando il carboncino. Il carboncino l'ho usato molto perché, così friabile, creava un segno molto duttile.

E.G.: Una cosa che colpisce negli assemblage è la ricorrenza di un elemento scatolare, una base appunto, che è quasi a misura degli elementi che si vanno a posare al di sopra. Che valore ha per lei questa struttura più regolare che ritroviamo in questo genere di lavori?

L.G.: Io direi isolarla dal resto. Visto che io prendevo a destra e sinistra quel che trovavo, lo dovevo pur isolare dal resto, della fonte, e dargli così un'autonomia, più che una monumentalità. Ho lavorato molto con oggetti di medio-piccola dimensione: lavori da tavolo. Anche perché la materia stessa essendo così fragile non permetteva che i lavori fossero di dimensioni maggiori.